stretta valle, scavata dall’erosione, inaccessibile da ogni altra parte.
In alto, a dominare l’imboccatura, si ergevano un tempo due grandi e possenti fortezze, come nidi d’aquile. Di una non rimanevano che pochi ruderi, mentre l’altra era stata letteralmente spianata nel
sottobosco. L’esistenza di due castelli, l’uno di fronte all’altro, in quel luogo sperduto, suggeriva che dovessero custodire un gran tesoro, o un segreto molto importante. Il percorso non era agevole, tra rami da spostare, grosse piante cadute e massi scivolosi. Era necessario attraversare ripetutamente l’acqua del torrentello e l’atmosfera umida del sottobosco rendeva più penosa la fatica. Era bello camminare tra le felci rigogliose, ma i vestiti s’incollavano
addosso per il sudore. Finalmente, dopo una strettoia in cui sembrava che le due alte pareti rocciose dovessero toccarsi, entrarono in una specie di canyon, fiancheggiato da rocce friabili, che piombavano a picco dall’altezza d’un centinaio di metri. I due immaginarono con un brivido l’effetto che doveva provocare, laggiù, un forte temporale, quando tutte le acque della valletta scendevano per i canaloni laterali, trasportando impressionanti quantità di sassi e di terriccio, per ingrossare il torrente in un’impetuosa corrente d’acqua e fango. Il fondo della valle serpeggiava ora in un “altro mondo”, invisibile ed inaccessibile per chiunque si fosse trovato in alto, sui bordi della valle. Un nascondiglio veramente ideale, per un gruppo di persone perseguitate. A condizione, naturalmente, di potersi riparare dalle piogge, che trasformavano la valletta in un imbuto micidiale. “Cercavamo delle grotte, su queste pareti, ma – se pure ci sono mai state – l’erosione le avrà portate via, lungo i secoli”. Viviana indicava a Giacomo le alte pareti di roccia friabile, l’una in ombra e l’altra colpita sino a metà della sua altezza dai raggi del sole. Sembrava che il canyon desse accesso ad un universo
fiabesco, un altro mondo. Ora le due pareti si aprivano e il letto del torrente, più ampio, ondeggiava in anse e meandri. Dietro ogni curva, i due giovani scoprivano qualcosa di nuovo. Nella sottile parete rocciosa che separava due bracci di un meandro, si apriva una finestra, scavata dall’erosione dell’acqua e del vento. Viviana volle a tutti i costi che Giacomo scattasse una foto a lei, seduta nell’apertura, con lo sfondo del cielo. Stentarono ad arrampicarsi sino a quel varco luminoso, perché la roccia si sbriciolava sotto i piedi. I due s’inoltravano sempre più nella gola, ma l’orizzonte visivo, serrato tra le pareti verticali, non consentiva di valutare esattamente la posizione. Per quanto scrutassero non riuscivano a scoprire alcuna traccia di grotte o nascondigli. “Ormai – osservò Giacomo – dovremmo trovarci sotto il costone dell’Abbazia”. “Non troveremo nulla – rispose Viviana. – L’erosione ha portato via tutto. Persino la grotta venerata, leggendario rifugio del santo eremita di nome Alberto, è stata distrutta dall’impeto delle piogge. Mi piacerebbe ritornare con un cerca–metalli, chissà che non ci sia ancora qualcosa tra questi sassi”. D’improvviso, un rumore secco, come lo schiocco di qualcosa che si rompeva, risuonò per la valle: forse un ramo, una radice, una fibra segreta della montagna. Una piccola frana partì da un canalone laterale. Il rimbombo delle rocce che cadevano rintronò nella piccola valle e sembrava provenire da tutti gli anfratti. Rotolavano sassi e si levavano nuvole di polvere. I due si rannicchiarono, incerti sul come proteggersi da una frana che non potevano vedere. I rumori andarono acquietandosi. Una nuvoletta di polvere, che si levava densa nell’aria, indicò il canalone laterale in cui era avvenuto lo smottamento. Ci volle un buon quarto d’ora per raggiungere la base del cono di sfasciumi. Il suolo era cosparso d’oggetti, come se fossero stati aperti e vuotati i ripostigli d’un castello. Si distinguevano utensili da cucina, panni e stracci, insieme a vecchi pezzi di legno quasi irriconoscibili. Viviana e Giacomo si arrampicarono sui rottami. Era un’azione avventata, perché non potevano sapere se la frana si fosse assestata. La salita si presentava ardua. Polvere e sassolini entravano nelle scarpe e nei vestiti, il terreno slittava sotto i piedi e dava loro la sensazione di non poter concludere la risalita della china. Con gran fatica, riuscirono a percorrere una trentina di metri. Sul lato destro del canalone, si apriva l’imboccatura di un’ampia grotta. La frana aveva riaperto un antico nascondiglio, invisibile dal fondo della gola. Raggiunsero trepidanti l’imboccatura della cavità e s’inerpicarono sui rottami che l’ingombravano. Sostarono un poco per adattare lo sguardo all’oscurità, poi procedettero con cautela verso l’interno. La grotta non era molto profonda. I due riconobbero un ricovero che poteva avere ospitato una
decina di persone. La foggia degli utensili rivelava un’età piuttosto antica, forse medievale. Nessuna traccia di scheletri o corpi umani. In base alla quantità e alla disposizione degli oggetti, il rifugio doveva essere stato abbandonato in modo improvviso dai suoi abitanti, che non vi erano più ritornati. Nulla però rivelava chi fossero stati i misteriosi abitanti della grotta. Non uno scritto, non una data, neppure un brandello d’abito. Forse – si dissero i due giovani – un’indagine scientifica sui frammenti di mobili ed utensili avrebbe fornito indicazioni sull’epoca dell’insediamento. Al momento, però, un profondo mistero sembrava impregnare le pareti dell’anfratto roccioso. Viviana fu scossa da un brivido, per l’emozione della scoperta. Si rannicchiò in un angolo, per ritrovare l’equilibrio. Chiuse gli occhi, se li stropicciò e… nel riaprirli, vide con chiarezza di fronte a sé la figura d’una fanciulla, vestita di bianco, con una specie di lunga tunica stretta ai fianchi da una cintura, ed una coroncina di fiori tra i capelli. La figura era diafana, luminosa, e pareva spostarsi fluttuando nell’aria, senza muovere muscoli. Un lungo brivido freddo partì dalla nuca di Viviana per scenderle lungo la schiena. Non riusciva a muoversi. Avrebbe voluto gridare per richiamare l’attenzione di Giacomo, che stava frugando poco più in là, ma la voce si strozzò in gola. Il fantasma si muoveva come se stesse compiendo i gesti ordinari di vita quotidiana. Ad un tratto, però, sembrò rendersi conto della presenza di Viviana. Si avvicinò e girò intorno alla ragazza paralizzata, che sudava freddo. Senza proferire parola, la visione le rivolse un cenno e si mosse rapida verso il fondo della grotta. Sembrò indicare qualcosa alla ragazza, poi d’improvviso scomparve. Viviana si riscosse, come risvegliata da un incubo. Ancora incredula della visione che era appena svanita, si rialzò, andò verso il punto indicato e notò che il fondo della grotta era chiuso da un
ammasso di pietre, come a tamponare un ripostiglio. Chiamò Giacomo e gli raccontò quanto era appena accaduto. Provarono a smuovere le pietre. Fu una fatica immane, ma alla fine riuscirono a far cadere un diaframma di tamponamento e videro, nella cavità retrostante, qualcosa che li lasciò senza respiro. “Abbiamo trovato il tesoro!” La loro attenzione era catturata da due cofani di legno, legati da fasce e borchie ferrate, che apparivano incastrati in una nicchia, nella parete di fondo della grotta. Erano chiusi con lucchetti di foggia antica e dovevano contenere qualcosa di molto importante, per chi li aveva riposti con tanta cura. I due giovani estrassero i bauli dall’incavo della roccia. Avevano la sensazione d’essere aiutati da qualcuno. Si sentivano circondati da un flusso d’energia benevola e percepivano una presenza amica, premurosa, quasi materna, che li consigliava e li proteggeva. Più volte Giacomo intravide con la coda dell’occhio il movimento d’una forma biancastra, al proprio fianco, mentre manovrava le pesanti casse. Si sentiva influenzato dal racconto della visione di Viviana e non diede grande importanza al fantasma, anche se gli appariva nitido, con le fattezze d’una giovane donna, pallida, una ghirlanda di fiori tra i capelli. Volevano a tutti i costi prendere i due cofani e portarli a valle. Erano tanto pesanti, che non si fidavano ad aprirli sul luogo. Avrebbero rischiato di non poterli più chiudere e d’incontrare mille difficoltà per il trasporto del loro contenuto. Li trascinarono giù per la frana di sassi, con grande attenzione, cercando di non danneggiarli. Se li caricarono a turno sulle spalle, in una lunga e faticosa discesa. Il ritorno durò diverse ore. Riuscirono a rivedere l’imbocco della valle soltanto col buio. Giacomo rimase a fare la guardia ai bauli, mentre Viviana andava a prendere l’auto per risalire il tratto di strada carrareccia, sino al torrentello. Il trasporto delle casse si concluse nel migliore dei modi, con una buona doccia. I due ragazzi rimasero per qualche giorno con i muscoli a pezzi e con la testa “nel mondo dei sogni”. Nei loro pensieri e fantasie, come un’ossessione ricorrente, tornava ad apparire la visione di quella giovane donna eterea, con la ghirlanda di fiori tra i capelli, che additava loro il “tesoro”. Finalmente, venne il momento fatidico. Viviana e Giacomo chiamarono ad assistere all’apertura dei cofani gli amici d’un ristretto gruppo, che condivideva i loro interessi, composto da un professore di storia, una giornalista e Francesco, un amico esperto di meccanica e d’altri lavoretti di bricolage. I cinque si sistemarono intorno alle due casse. Dovremmo dire “i sei”, perché il fantasma della
giovane donna non poteva mancare alla cerimonia. Sarebbe stato un peccato rompere il lucchetto, che avevano stimato essere un’opera di ferramenta medievale. Per questa ragione era importante la presenza di Francesco, l’unico tra loro capace di trattare le chiusure con oli e con liquidi per sciogliere la ruggine. Ci volle quasi un’ora per riuscire ad aprire i lucchetti del primo baule, senza danneggiarli. Il coperchio si ribaltò sui cardini e lasciò vedere il tesoro. Non erano ori, né preziosi, ma si trattava dell’archivio segreto d’una piccola comunità perseguitata. Testi e volumi, attrezzi per scrivere, qualche moneta, un sigillo di bronzo, mozziconi di candela. Tutto fu classificato e riposto in ordine. Sarebbe occorso tempo per leggere e decifrare i documenti.
La seconda cassa conteneva paramenti sacri e oggetti per il culto: calici, pissidi, piattini dorati, promemoria con preghiere ed inni. Testi scritti in una lingua dimenticata e condannata all’oblio, insieme a tutti quelli che l’avevano parlata. Aprirono la prima pergamena che cadde loro sotto gli occhi. Sembrava un diario, scritto in bella calligrafia da mano femminile. La luce si attenuò nella stanza e una dolce voce femminile prese a leggere quel testo, in un idioma armonioso che nessuno di loro conosceva, ma tutti comprendevano per istinto. Era l’antico idioma occitano, la madre delle lingue mediterranee medievali e moderne. Il diario narrava la storia triste d’una comunità, che aveva scelto di vivere nelle valli fiorite di Provenza, in obbedienza a regole armoniose in cui tutti credevano. Erano stati costretti a fuggire, scacciati dai loro villaggi col ferro e col fuoco. Avevano varcato le Alpi ed erano stati accolti dai Signori di queste terre amiche. Li aveva preceduti la fama della loro poesia, la dolce lingua portata dalla musica dei trovatori, sulle note di liuti e viole, sino alle corti
arroccate sulle cime impervie dell’Appennino. La valle esplorata dai nostri amici era stata l’ultimo loro rifugio, protetto dall’alto da possenti fortilizi dei signorotti locali. In grotte scavate dal tempo e dall’acqua, lungo le due pareti della stretta gola, la comunità dei Perfetti s’isolò dal mondo degli uomini, dopo le stragi che avevano decimato i confratelli d’Occitania. La voce del fantasma divenne un sussurro, poco più d’un sospiro, sino a spezzarsi in singhiozzo. Quelle grotte erano state il teatro d’un triste esilio, per due generazioni: quella dei rifugiati, sfuggiti al tremendo massacro, e i loro figli. La comunità dei Puri sopravvisse segregata dal mondo, prigioniera degli stessi uomini d’arme e delle fortificazioni che la proteggevano. In alto, sul ciglio dell’orrido, oltre i castelli di guardia, si ergeva una piccola abbazia. In quel modesto nido d’aquile, proteso verso il cielo, trovò rifugio un re d’Inghilterra, dopo la caduta dei Templari. Scampò alla prigionia nel suo paese e venne qui ad attendere la morte, nella meditazione dell’esilio. La valle–rifugio, nascosta come uno scrigno tra i monti fioriti dell’Appennino, custodiva i fuggitivi di mezza Europa. Qui si spensero le vite di coloro che erano sfuggiti a mille persecuzioni, così come le fanciulle violate dai signori si spegnevano, pregando, recluse nei monasteri. La tenera voce femminile si riscosse dal pianto e riprese la lettura del diario. Descriveva la vita quotidiana della piccola comunità, i giochi dei bambini, l’opera delle donne che raccoglievano i frutti del bosco, confezionavano utensili e vestiti, mentre gli uomini costruivano i mobili per i
ricoveri e si prestavano a dure corvées di servizio ai signori del luogo, per ripagarli dell’ospitalità, della protezione, del velo di segreto accordato al loro rifugio. Improvvisamente, in una notte terribile, un temporale devastò la valle e sconvolse le rocce friabili. Torrenti d’acqua e fango scorrevano da tutte le parti, era un inferno dal quale nessuno trovò scampo. Tutti gli abitanti della piccola valle rimasero travolti dalla fiumana e nessuno sentì più parlare della comunità dei Puri, rifugiata tra quei monti. La voce si spezzava, mentre rievocava tra i singhiozzi gli orrori della piena, la pioggia battente, i fulmini, le frane, i bambini che cadevano senza scampo nei gorghi del torrente. I cinque giovani ascoltavano, in religioso silenzio. Viviana azzardò una domanda: “Ma se sono morti tutti, se la comunità è andata distrutta, come hanno potuto lasciare questa memoria scritta?” Gli occhi degli ascoltatori si rivolsero al manoscritto. Il diario era finito da un pezzo e si vedevano solo pagine bianche, macchiate qua e là dall’acqua e dalle lacrime. Il fantasma della giovane donna mostrò i palmi delle mani aperti, in un antico gesto di benedizione e di commiato, si tolse la coroncina di
fiori dai capelli e la porse loro. Si coprì il capo col bianco velo e si dissolse nella luce della finestra. La compagnia rimase ammutolita. Un lungo silenzio, che sembrò durare un’eternità. Giacomo riaprì gli occhi nella penombra, si alzò, andò ad aprire gli scuri e diede luce alla stanza. Sul tavolo, accanto al manoscritto, era appoggiata una delicata coroncina di fiori secchi, d’assenzio, arnica e lavanda. L’ultimo regalo della ragazza solitaria, custode della valle.